A ciascuno sono dati sogni. Sta a noi realizzarli. In un modo o nell’altro. Angelo, gran lettore di Saint Exupéry, sognava di fare l’aviatore. I casi della vita non glielo permisero. Non rinunciò al sogno e riuscì a solcare i cieli assieme ai migliori. Oggi il suo livre du chevet, il libro che sta sul comodino, è una vecchia edizione de Il Gabbiano Jonathan Livingston. “…volevo diventare pilota – racconta sfogliando giornali con suoi servizi su aerei da caccia e d’acrobazia – non potendolo ho dovuto inventare un modo che mi permettesse di volare…”. La chiave per aprire quella porta fu la professione. Gli inizi non furono entusiasmanti. Più che un volo fu uno starnazzare. “…la prima volta fu da Ciampino a Fiumicino, quando costruirono la prima pista. Per l’occasione avevano invitato giornalisti e fotografi: c’ero anch’io. C’imbarcarono a Ciampino, allora aeroporto di Roma e ci scaricarono dopo una mezz’oretta a Fiumicino. Vivevamo gli anni cinquanta del secolo passato. Prendere l’aereo non era comune, come adesso.

angelo cozzi fotografoDoppia pagina del settimanale Epoca del 28 agosto 1966

Mi piacque e m’ingegnai a volare non per mestiere di pilota ma per mestiere di fotografo. Il primo servizio, con i supersonici, lo feci nel 1965 e con il massimo degli aerei: l’intercettore F104. Era per il mensile Storia Illustrata. Stampato anche in estratto, e distribuito nelle scuole, sarebbe servito all’Aeronautica per farsi conoscere. Il reportage testimoniava com’era organizzata la base di Grosseto; come si svolgeva il lavoro giornaliero della squadriglia. Volai sul Gran Sasso all’ora del tramonto e vidi il sole sorgere dove avrebbe dovuto tramontare. L’aereo salì diritto, in candela come si dice, e più guadagnavamo quota, più il sole sembrava alzarsi sull’orizzonte invece di abbassarsi, come in ogni tramonto che si rispetti. In realtà eravamo noi a salire a velocità supersonica. Una bellissima esperienza che mi convinse a continuare. Per Epoca stetti venti giorni a Cameri, la base nella quale vigilavano sempre due intercettori, pronti a levarsi in volo in tre minuti. Tempi di guerra fredda e il pericolo veniva dall’Est…”. Gli F104 erano la punta di diamante della aviazione. Assomigliavano a lunghi sigari, dotati di corte ali. Raggiungevano velocità due volte quella del suono. Avevano nome “Starfighters”, Cacciatori di Stelle. Non erano facili da pilotare. Armati con due missili aria-aria Sidewinder e un cannone a canne rotanti Vulcan da 20mm potevano trasportare anche un’atomica tattica. Un’ora di volo costava più di un milione delle lire di allora. Tenete a mente queste notizie, ci serviranno tra poco. Torniamo alle avventure di Angelo sul F104T, il modello biposto da addestramento. “…a Cameri, con i tecnici dell’aeronautica, attrezzammo un F104T per le mie esigenze. Le configurazioni fisse erano due: una con la fotocamera rivolta verso il viso del pilota e la seconda rivolta in avanti, fissata a una robusta mensola sul davanti della piccola cabina di pilotaggio.

Angelo Cozzi nell'abitacolo del F104. Si nota la cinghia di fissaggio della Nikon alla tuta angelo cozzi fotografo

Io stavo sul seggiolino dietro e scattavo mediante un telecomando elettrico. La fotocamera era una Nikon, dotata di magazzino da 250 fotogrammi…”. Detto così è facile, in realtà le difficoltà erano molte, a partire dalla mensola che reggeva la Nikon davanti al pilota: non doveva trasmettere vibrazioni alla macchina, né correre il rischio di staccarsi. Alle accelerazioni di parecchi G, raggiunte normalmente dall’aereo, il paio di chili di macchina e magazzino aumentavano decine. Problemi banali, nell’abitacolo di un caccia diventano ardui da risolvere. Ne va della vita del pilota. Il cavetto dello scatto, con cui Cozzi comandava la Nikon, dovette essere completamente schermato, per non creare interferenze con gli apparati elettronici. C’era ancora una difficoltà:”… dovevo sapere esattamente, in ogni momento, quante foto avevo scattato. Era una questione economica. In volo avevo alcuni aerei, oltre al mio e il costo orario era di molti milioni di lire. Non potevo, ad un certo momento, accorgermi di aver scattato troppe foto e avere esaurito la pellicola e farli atterrare tutti per ricaricare il magazzino e ripartire per un’altra sessione fotografica. Né potevo andare in giro per i cieli dopo aver esaurito gli scatti, senza che me ne fossi accorto. Il pilota non poteva leggere il contatore della macchina che aveva davanti, io, seduto nel seggiolino posteriore, men che meno. L’idea venne a un maresciallo del G.E.V. (Gruppo Efficienza Velivoli) un genio nel risolvere situazioni difficili. Prese un contacolpi per il cannone, lo fissò sul cruscotto davanti a me e lo collegò alla Nikon mediante un cavetto che finiva nella presa del flash. Ogni due scatti scalava di una unità, fino ad arrivare a zero quando avevo finito i miei duecentocinquanta fotogrammi…”. Mai come in questo caso la definizione “shot”, colpo, con cui, in inglese, definiscono lo scatto della fotocamera fu appropriato. Oltre che con la fotocamera fissata nell’abitacolo del pilota, Cozzi scattava a mano, con due apparecchi fissati alla tuta di volo, mediante un ingegnoso sistema di cinghie. Indispensabili per evitare che gli sfuggissero di mano e, come proiettili, causassero un disastro. Dopo i voli con gli F104 l’esperienza continuò sui G 91. Aerei ideati e costruiti in Italia dalla Fiat Aviazione. G era l’iniziale del progettista, l’ingegner Giuseppe Gabrielli. Del G91 ne costruirono diverse serie, una anche per le Frecce Tricolori, la pattuglia acrobatica. Ne combinarono delle belle, lui e i ragazzi delle Frecce: “…su Venezia non si potrebbe passare con gli aerei, meno che mai con una squadriglia di jet in formazione a rombo. Per avere delle foto spettacolari ci passammo ugualmente, ma quello che fece dare in escandescenze la torre di controllo di Tessèra, l’aeroporto di Venezia fu quando allargammo la virata che ci aveva portati su piazza San Marco e ci trovammo sui depositi di fosgene di Marghera. Meglio non scrivere gl’improperi con i quali ci caricarono i controllori di volo…”.

angelo cozzi fotografoSulle Alpi con il G91Y pilotato dal comandante Sanseverino

C’è uno spirito un po’ guascone tra la gente dell’aria. E anche gli scherzi reciproci non sono da educande. Angelo ricorda ancora ridendo di quando, durante una festa, diedero fuoco al cappellano gridando:”…l’Inferno, l’Inferno…”.. In realtà diedero fuoco alla sedia del cappellano, ma lui stava seduto sopra. Anche la goliardia, come a un vero aviatore, non mancò ad Angelo. Assieme alle visite attitudinali, alle quale ogni pilota deve sottoporsi ogni sei mesi; e al corso per imparare a non far danni, una volta chiuso nell’abitacolo. Anche una minima distrazione, può far precipitare l’aereo. I rullini, ad esempio. Doveva fare molta attenzione quando li cambiava. Gliene fosse sfuggito di mano uno e fosse andato a incastrarsi sotto la pedaliera, in questo momento non sarebbe qui, a raccontarmi le sue scorribande per i cieli. E i personaggi conosciuti: Sanseverino, il mitico capo collaudatore della Fiat Aviazione; Zardo delle Frecce Tricolori, Stelio Nardini comandante del 21° Stormo di Cameri. Essere contiguo a tanta sapienza aeronautica non gli evitò di mandare in stallo un T6, vecchio biposto usato a quei tempi per gli spostamenti da una base all’altra. C’è qualche reticenza nel racconto ai Angelo, ma i fatti sono come accaddero. “…il T6 era un aereo d’addestramento, precedente la Seconda Guerra Mondiale, prodotto dall’americana Northrop Grumman – racconta - Aveva ancora un motore a scoppio stellare, che faceva un chiasso indiavolato. Quella volta, chi pilotava mi diede i comandi e attese. Io salivo, salivo finché il T6 andò in stallo…”. Lo stallo è incidente che capita improvviso, quando la velocità non è più sufficiente a generare la portanza necessaria per sostenere l’aereo. L’aereo si ferma e inizia a precipitare. Portare l’aereo in questa situazione critica fa parte dell’addestramento del pilota, che deve sapersela cavare. Angelo non era pilota. Per uscire dallo stallo si deve buttare l’aereo in un’immediata picchiata, che gli faccia acquistare velocità e portanza. Lo fece il pilota, quello vero, contemporaneamente scoppiando in una risata che sovrastò il ruggito del motore:”…l’aveva previsto ed era pronto a rimediare al mio inevitabile errore…” Confida Angelo, ridendo dello spavento preso. E non fu il solo. Una volta, con l’F104, un inconveniente mise fuori uso la pressurizzazione dell’abitacolo. Un’immediata condensa sui vetri impedì la vista al pilota. “…con grande sangue freddo- ricorda Angelo – il pilota avverti via radio il capo squadriglia che si affiancò a noi e ci guidò, in volo cieco, fino all’atterraggio. Era Nardini, il capo squadriglia….”. Più di ottomila sono le ore di volo accumulate da Angelo: su tutti i tipi di aereo, in tutti i cieli del mondo, per gli scopi più diversi. Decine i suoi passaggi dell’Equatore. Oggi non ci si fa più caso ma, allora, il passaggio dell’equatore era festeggiato non proprio come sulle navi, ma quasi. Si dedicavano anche importanti servizi fotografici a chi volava per mestiere: hostess, piloti e steward.

L’inquilino di una casa chiamata Jumbo, così il giornale titolò il servizio che raccontava la vita quotidiana di un equipaggio di Jumboangelo cozzi fotografo

Angelo seguì l’equipaggio di un Jumbo per due viaggi. E. per fare un paragone traversò anche l’Atlantico con la nave passeggeri Raffaello. Questo per raccontare, con le sue immagini, la vite parallele di un comandante d’aereo e del suo collega di nave. “…per due volte ho fatto il capodanno in aereo: una volta quando andai in Terrasanta al seguito di Paolo VI. Una volta feci anche il compleanno: un 29 settembre nel cielo dell’Atlantico sulla rotta per andare a New York. Conoscevo l’equipaggio e bevemmo champagne nella cabina di prima classe. Dopo il brindisi mi accorsi che erano tutti attorno a me e l’aereo viaggiava da solo…”. Migliaia di ore di volo e centinaia di aneddoti. Quella volta che volò sull’Etna, con una porta del Fokker tolta, e un motore spento, per poter meglio riprendere un DC9 mentre sorvolava il vulcano. Quell’altra che fotografò, dall’elicottero, le Twin Towers appena ultimate e l’elicottero, pilotato da un reduce dal Viet Nam, si schiantò nell’Hudson dopo il suo volo.

angelo cozzi fotografoMike Bongiorno in cima al Cervino

Il giorno che fotografò Mike Bongiorno sulla punta del Cervino:”…l’elicottero lo portò su, una guida lo assicurò alla croce che sta sulla punta, poi venne a prendermi per scattare le foto volandogli attorno. Ci attardammo e l’elicottero, prima di recuperare Mike tornò alla base, Zermatt, per fare il pieno. Nel frattempo, come spesso accade in montagna, il tempo peggiorò e grosse nubi incappucciarono la montagna. Non c’erano le condizioni per andarlo a prendere. Rimase lassù in paio d’ore, poi una schiarita permise di recuperarlo: Devi offrici da bere, gli dissi, appena scese a Plateau Rosa. Non disse nulla. Tirò fuori una bottiglietta di grappa da sotto la giacca a vento, ne bevve un sorso, la rimise sotto la giacca a vento. Era un po’ tirchio Mike…”. Malgrado i voli in tutti i continenti e su tutti gli aerei, la carriera aviatoria di Angelo non registra incidenti degni di nota. Nemmeno quando copriva la guerra in Viet Nam. L’unica paura, ma chissà se veramente ne provò, o era troppo occupato a preparare le macchine fotografiche per documentare l’incidente, fu un colpo di vento in atterraggio nel vecchio aeroporto di Fontanarossa. Uscita di pista e rottura del carrello. Nient’altro. I calzini rossi, che indossa sempre quando viaggia in aereo, non sono mai serviti. A che? “…far identificare il mio cadavere con sicurezza in caso d’incidente…”. Ti risponde guardandoti fisso negli occhi, come fosse precauzione tanto naturale quanto ovvia.

RUOTA LO SMARTPHONE ORIZZONTALE per una visione ottimale della galleria